Come si comporta un grande alpinista quando finisce negli ingranaggi della Seconda Guerra mondiale? Diciamo un tipo ben saldo nei propri convincimenti democratici ed altrettanto consapevole dei propri doveri di cittadino?
Nell'anteguerra Harold William "Bill" Tilman era stato un valente alpinista himalaya- no, animato da un indomito spirito di ricerca che non lo abbandonò mai. La spedi- zione inglese al Mount Everest del 1938 lo aveva fra i suoi membri (Bill Tilman è il terzo da sinistra). Era un tipo molto, molto diverso da un altro protagonista della corsa agli 8000 degli anni '30, il celebratissimo Heinrich Harrer. |
Un uomo come Bill Tilman non può essere confuso col famoso "nazista a sua insaputa" Heinrich Harrer, il qualunquista-doc asceso all'empireo degli eroi grazie ai suoi "Sette anni in Tibet" (e infatti lì s'era infrattato, per sfuggire alle sue re-sponsabilità di adulto e di cittadino).
👉Tilman era stato anche lui un va-lente alpinista ma a differenza di Harrer (che pure figura nella cordata che per prima vinse la terribile parete nord dell'Eiger), aveva la schiena diritta e conosceva il significato della parola democrazia.
Il Maggiore Tilman in due scatti del periodo trascorso in missione fra i partigiani del bellunese. Venne paracadutato sull'altipiano di Asiago nell'agosto del 1944 e si trasferì nelle Vette Feltrine, dove fece base presso il reparto comunista "Briga- ta Gramsci". Il Ministero della Difesa ha pubblicato un interessante opuscolo sul- la figura del Maggiore Tilman e sulla sua missione; la rivista "Montagne" ne parla nel numero monografico dedicato ai sentieri e alle cime della Guerra Partigiana, con particolare riferimento alle Vette Feltrine (dove prese vita il Btg. Gherlenda, che operò nei Lagorai trentini). Una descrizione della "Alta Via Tilman" si trova anche in un articolo del quotidiano "Trentino". |
A lui è dedicata l'"Alta Via Tilman", il sentiero che collega l'Altopiano di Asiago a Falcade, in una terra di partigiani che seppe esserlo nel periodo più buio e pericoloso, coi repubblichini locali (che conosce-vano il territorio) impegnati a reg-gere il moccolo all'occupante nazi-sta.
👉Bill Tilman arrivò appeso a un para-cadute il 31 agosto 1944 con le ta-sche piene di lire, insieme a un mar-conista e a una radiotrasmittente.
Era lì per appoggiare la guerra par-tigiana, cioè per sconfiggere Hitler e Mussolini.
Operò con le forze partigiane nei monti bellunesi, nelle alti valli del Cordevole e di San Lucano, nella
Foresta del Cansiglio e tra le Vette Feltrine con la "Brigata Gramsci", da una costola della quale nacque il "Battaglione Gherlenda" trentino, stanziato nei Lagorai del Tesino, l'unica vera formazione militare della resistenza trentina.
La città di Belluno gli ha conferito la cittadinanza onoraria.
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Il suo sense of humor tutto britannico traspare anche da questo testo che compare a pag. 27 dello scritto del partigiano Silvio Cecchinato di Cadoneghe, intitolato "Ricerca dedicata a Paride Brunetti "Bruno" e messo in rete dall'ANPI di Varese. Ecco il testo:
L'aspetto delle Vette Feltrine in una giornata estiva. La Casera Pietena è situata nella fa- scia delle malghe al di sotto delle cime in ultimo piano. |
Con la Brigata Gramsci. Le Vette è un altipiano alto ed erboso (circa 7000 piedi).
A nord esso si presenta con una facciata alta e dirupata di roccia marcia, su cui si può salire solo per un difficile sentiero, mentre dalle altre parti ci sono solo quattro possibili vie di accesso. La cima è un'ampia depressione simile ad un catino, divisa in due parti da un crinale alto ed erboso che corre da nord a sud. Ad eccezione di pochi massi erratici essa è completamente spoglia di alberi, cespugli o qualsiasi cosa che possa dare una copertura. A prima vista i suoi accessi scarsi e facilmente difendibili sembrano farne una postazione partigiana ideale. In realtà essi danno un senso di sicurezza piacevole ma interamente fasulla. Le vie di entrata sono necessariamente anche le vie d'uscita e, se queste sono bloccate, ogni libertà di manovra, il sine qua non della guerra partigiana, è finita.
A nord esso si presenta con una facciata alta e dirupata di roccia marcia, su cui si può salire solo per un difficile sentiero, mentre dalle altre parti ci sono solo quattro possibili vie di accesso. La cima è un'ampia depressione simile ad un catino, divisa in due parti da un crinale alto ed erboso che corre da nord a sud. Ad eccezione di pochi massi erratici essa è completamente spoglia di alberi, cespugli o qualsiasi cosa che possa dare una copertura. A prima vista i suoi accessi scarsi e facilmente difendibili sembrano farne una postazione partigiana ideale. In realtà essi danno un senso di sicurezza piacevole ma interamente fasulla. Le vie di entrata sono necessariamente anche le vie d'uscita e, se queste sono bloccate, ogni libertà di manovra, il sine qua non della guerra partigiana, è finita.
Mentre salivamo lentamente con passo pesante gli ultimi ripidi zig-zag
della mulattiera, ci fu improvvisamente intimato l'«Alt» da un inglese inconfondibile, vestito da
partigiano con abiti frusti e del tutto comuni. Egli risultò essere un prigioniero di guerra riuscito a
fuggire, e questo era il posto di blocco che difendeva l'accesso principale alle Vette. Sotto una tettoia di
lamiera c'erano altri dieci Inglesi, tutti prigionieri di guerra fuggiti, che erano rifluiti in blocco nella
Brigata Gramsci. Formavano un piccolo distaccamento a sé con l'illustre nome di «Churchill Company».
Dei molti prigionieri inglesi che erano scappati al tempo dell'armistizio italiano, alcuni erano stati
ricatturati, molti vivevano presso famiglie italiane, pochi erano fuggiti attraverso la Jugoslavia, e alcuni
si erano uniti ai partigiani. Naturalmente furono sorpresi e felici di vederci e ci interrogarono con
grande interesse ed attenzione soprattutto sulla probabile durata della guerra, perché erano indecisi se
tentare o meno di passare nelle nostre linee. Il nostro consiglio fu di rimanere. Pensavamo che anche nel
caso che l'atteso sfondamento da parte alleata non avesse luogo e che quindi non ci fosse nessuna ritirata tedesca
quasi sicuramente l'andamento della lotta sarebbe diventato più fluido e sarebbe quindi stata
un'impresa più semplice passare allora attraverso le linee.
Il Rif. Dal Piaz, affacciato verso Feltre e le Prealpi venete. |
Il posto di blocco era collegato con una linea
telefonica all'H. Q, della brigata, alla distanza di circa 10 minuti di strada. Fu riferito che eravamo
arrivati e ottenemmo il permesso di passare. Gli arrivi sospetti e molto improbabili, come nel nostro
caso, venivano sempre fermati al posto di blocco finché non si era accertata la bona res dei nuovi venuti.
Spie ed informatori abbondavano, infatti, e, quando venivano scoperti, non gli si dava grazia. Era
impressionante sapere quanti ce n'erano. Se ne scoprì perfino tra le file partigiane e non ci si poteva
fidare di nessuno, che non fosse conosciuto personalmente. L'eliminazione sistematica delle spie e degli
informatori in città e paesi continuò per tutto il periodo della lotta partigiana e si strappavano loro le
informazioni a forza, prima di fucilarli.
C'erano circa 300 partigiani sopra Le Vette. Un H.Q. molto numeroso viveva a Pietena in una lunga costruzione di sassi, coperta di lamiera, ricovero per le mucche (una malga, com'essa era chiamata). Il Battaglione di nome Zancanaro viveva in un'altra malga, nell'altra metà del catino montuoso al di là del crinale; e il Battaglione Battisti stava a due-tre miglia di distanza ad est, per controllare l'accesso da quella parte. La stessa Divisione Nannetti, e le sue brigate e i suoi battaglioni, erano tutti denominati con nomi di eroi del Risorgimento, come Mazzini, Bixio, Pisacane, Cairoli; o di patrioti, per lo più comunisti, che si erano opposti accanitamente al fascismo negli anni '20, e che avevano combattuto ed erano morti nella guerra civile di Spagna, dalla parte perdente. Nino Nannetti e Gramsci, per esempio, erano due patrioti di questo tipo. Più avanti, battaglioni, o perfino brigate, presero il nome da partigiani di fama, che erano stati uccisi in azione o che erano stati giustiziati in tempi recenti.
C'erano circa 300 partigiani sopra Le Vette. Un H.Q. molto numeroso viveva a Pietena in una lunga costruzione di sassi, coperta di lamiera, ricovero per le mucche (una malga, com'essa era chiamata). Il Battaglione di nome Zancanaro viveva in un'altra malga, nell'altra metà del catino montuoso al di là del crinale; e il Battaglione Battisti stava a due-tre miglia di distanza ad est, per controllare l'accesso da quella parte. La stessa Divisione Nannetti, e le sue brigate e i suoi battaglioni, erano tutti denominati con nomi di eroi del Risorgimento, come Mazzini, Bixio, Pisacane, Cairoli; o di patrioti, per lo più comunisti, che si erano opposti accanitamente al fascismo negli anni '20, e che avevano combattuto ed erano morti nella guerra civile di Spagna, dalla parte perdente. Nino Nannetti e Gramsci, per esempio, erano due patrioti di questo tipo. Più avanti, battaglioni, o perfino brigate, presero il nome da partigiani di fama, che erano stati uccisi in azione o che erano stati giustiziati in tempi recenti.
La Divisione Nannetti era quel che si diceva una formazione Garibaldi. Le unità Garibaldi furono
composte ed organizzate innanzitutto dai comunisti, che, in Italia, Iugoslavia, Albania e forse in Grecia,
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erano la spina dorsale del movimento di resistenza.
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Non c'era alcun dubbio, secondo me, che le
formazioni Garibaldi fossero le più efficienti. Erano le meglio organizzate e meglio guidate e attiravano
un tipo di recluta più appassionata e decisa delle brigate cosiddette indipendenti, e delle brigate con altre
tendenze politiche. Il metodo di formare brigate su di una base politica era, naturalmente, deplorevole.
Ma fin che si trovava qualcuno sufficientemente forte da guidare e controllare l'intero movimento di
resistenza, e fin che il Partito Comunista non rinunciò al controllo delle formazioni Garibaldi, un tale
metodo era probabilmente inevitabile. In seguito, tutte le formazioni, senza tener conto del colore
politico, furono incorporate nel Corpo Volontario della Libertà o C.V.L., sotto il controllo dell'ufficio
militare della Commissione Centrale di Milano del C.L.N. o Comitato di Liberazione Nazionale. Per la
maggior parte, i capi delle formazioni Garibaldi erano comunisti; alcuni da lunga data e saldamente
convinti, altri di conversione recente, i cui interessi erano opportunistici più che di natura politica, e che
avevano abbracciato quella fede per amore della pace e della tranquillità e per evitare l'ostacolo di
interrogatori politici, ai quali sarebbero stati altrimenti soggetti. La truppa, o garibaldini, com'erano
chiamati, era più eterogenea. Fra loro si poteva trovare il fanatico, l'entusiasta, il tiepido, l'indifferente,
e i politicamente indipendenti; erano tutti divenuti garibaldini solo perché questi erano i più numerosi e
meglio organizzati. In quel momento l'intera nostra zona, con una sola piccola eccezione, era formazione
Garibaldi. Più tardi si formarono anche due brigate indipendenti, ma di non molta importanza. I
garibaldini amavano portare fazzoletti rossi al collo, si presume a testimonianza delle camicie rosse de I
Mille di Garibaldi, così come ogni altra organizzazione comunista, e, quando possibile, un berretto
grigio con la punta lunga, simile ad un kepi francese, ma più morbido, con una stella rossa in fronte. Al di sotto di questo, tutto era permesso, anzi ben accolto: rimasugli di uniformi tedesche, italiane ed
inglesi, uniformi italiane di poliziotti, pompieri, marinai, guardie doganali, guardie forestali, o carabinieri; e naturalmente ogni concepibile genere di tenuta civile. Molti erano ex Alpini e portavano
con ostentazione il cappello degli Alpini del loro reggimento. Le barbe da Alpini erano sempre alla
moda, fin che esse non divennero troppo pericolose, perché un uomo con la barba diventava ipso facto un
partigiano o un brigante, a seconda dei punti di vista.
Non vidi mai tra i partigiani della montagna il
tipico saluto a pugno chiuso, anche se credo sia abbastanza comune in pianura. Si usava salutare con un
gesto normale, e l'immancabile esclamazione di saluto nell'entrare in una stanza o nell'uscirvi era Morte
ai Fascisti (o al Fascismo), cui si replicava Libertà ai Popoli.
Ogni H. Q. giù fino a quello di un battaglione aveva il suo commissario politico, che era responsabile in particolare delle relazioni tra partigiani e popolazione civile, del mantenimento di un buon morale tra i partigiani e della loro istruzione politica. Egli lavorava in strettissimo contatto con il comandante e tutti gli ordini venivano invariabilmente firmati da entrambi. Nella Brigata Gramsci l'ora politica era strettamente osservata. Questa era un intervallo di tempo stabilito giornalmente, in cui il comandante o il commissario rivolgevano agli uomini discorsi su problemi di disciplina, organizzazione, economia interna o politica, e in cui ogni uomo poteva alzarsi e porre qualsiasi domanda, non escluso sul comportamento dei propri capi. Successivamente la cosa venne sospesa sia a causa della riduzione di uomini, sia a causa dell'allentarsi dell'interesse politico di fronte alla situazione sempre più critica dell'inverno. Alcuni Russi, prigionieri di guerra fuggiti, che erano sulle Vette con la brigata (uno era un comandante di compagnia), si preoccupavano in modo particolare che non ci fossero assenze durante l'ora politica. Sembravano soldati in piena efficienza, questi Russi, che prendevano la vita seriamente. Non c'era nulla di ridicolo o di scherzoso in loro, tranne i loro nomi Borlikoff, Orloff, Shuvoff, ecc.
(trattasi di Bortnikov, Orloff e Kuznietzov (*) - nda).
La disciplina era abbastanza buona, ma niente a che vedere con quella rigorosamente seguita nelle analoghe formazioni in Albania, dove piccoli furti, ubriachezza e immoralità erano tutti puniti con la morte. La disciplina in un corpo di uomini liberi, formatosi spontaneamente, rappresenta un problema delicato e difficile. Se gli uomini hanno inculcato in loro un alto senso di dedizione ad una cosa sacra, allora si possono stabilire regole estremamente severe, senza troppa paura che possano essere infrante e senza dover usare pene corrispondentemente severe; ma nel caso di un gruppo più eterogeneo e con principi meno elevati, gli occhi di coloro che hanno autorità devono spesso fingere di non vedere, eccezion fatta per serie infrazioni militari. Molto, in questo caso, dipende dalla forza e dalla personalità del comandante. C'era certamente più rilassatezza in Italia. Perfino il controllo dei rifornimenti ricevuti sull'area di lancio, una questione elementare e fondamentale, era spesso insoddisfacente. Ho saputo solo di due casi di partigiani fucilati, l'uno per ubriachezza, quando era di guardia, e l'altro perché aveva ripetutamente strappato del cibo ai civili con la forza, per il suo interesse personale. Per disobbedienza o negligenza nel dovere, un uomo poteva essere legato ad un albero per alcune ore, e, in casi più gravi, poteva essere bandito. Bruno, il comandante della brigata, era uomo di forte personalità, rispettato ed amato dai suoi uomini. Era un ex ufficiale di artiglieria ma, essendo stato impiegato solo in unità contraeree, non aveva alcuna esperienza di tattiche di fanteria e di combattimento. La sua brigata era ben organizzata e disciplinata e le armi, per quel che erano, tenute con molta cura.
Ma, a dispetto delle nostre continue richieste, espresse in un linguaggio che diventava sempre più rude, man mano che il tempo passava, niente ci arrivò all'infuori dei nostri bagagli e viveri, che alla fine furono sganciati sul Monte Grappa, dove furono rubati o andarono persi.
Pietena non era impossibile da trovare; lo si capì quando un aereo americano giunse proprio sopra di noi, per paracadutare due agenti italiani. Il terreno era assolutamente inadatto all'atterraggio di uomini, ma avendo ricevuto l'ordine di accoglierli, accendemmo i fuochi di segnalazione. Verso mezzanotte un Liberator volò alto sopra di noi, fece il giro una volta, e scomparve. Non vedemmo cader giù assolutamente nulla. Ma, all'alba, comparve uno sconosciuto, piuttosto stravolto nell'aspetto, che vestiva una tuta Sidcot, e domandò se avevamo visto il suo compagno. Furono subito inviati dei gruppi di ricerca. E trovarono lo sfortunato uomo appeso ad un dirupo a testa in giù. Non rimase seriamente infortunato, ma non ce ne attribuimmo il merito.
Nonostante che i partigiani fossero sorpresi e disgustati per la nostra incapacità di aiutarli, restavamo egualmente buoni amici. Penso che attribuissero il nostro fallimento ad incompetenza più che a cattiva volontà, ed in questo naturalmente avevano proprio ragione.
I più ardenti comunisti tra loro amavano pensare che noi ci tirassimo indietro per una presa di posizione predeterminata a causa delle loro idee politiche; e se non fosse stato per un carico di fucili Bren, caduto ai loro piedi, o meglio sulle loro dure teste, la loro teoria sarebbe stata difficile a morire; non importava quanto aspramente noi protestassimo che, pur che restassero entusiasti di combattere, avrebbero potuto essere anche anarchici, per quel che interessava a noi e ai nostri comandanti. Nonostante i nostri difetti, però, ci accettarono come uno di loro. Ci rifornirono di tutto quanto serve per dormire, poichè non avevamo ancora null'altro che gli abiti che vestivamo, il necessario da toletta, una scodella e un cucchiaio;che vestivamo, il necessario da toletta, una scodella e un cucchiaio; fecero sì che ricevessimo la nostra razione di sigarette e tabacco, e incaricarono perfino un fascista «addomesticato», che non avevano ancora eliminato, di portarci i pasti dalla cucina, dove si cucinava il cibo per tutti in un enorme calderone di rame.
Ci nutrivamo molto bene. Si cominciava la giornata con una tazza di surrogato di
caffè e un panino, la tipica pagnottina italiana di circa 100 grammi di buona farina integrale, non
raffinata; a mezzogiorno una scodella di minestrone, che consiste in una zuppa densa di verdure e
fagioli, un'altra pagnotta e a volte un pezzo di formaggio, inequivocabilmente italiano, ma soddisfacente.
Oltre che cifrare e decifrare messaggi, visitare i battaglioni, e studiare a fondo la geografia de Le Vette, non c'era molto altro da fare per noi.
Il 17 settembre, approfittando della presenza da noi del commissario della Brigata Pisacane, che stava per tornare indietro, io e Gatti facemmo una gita rapida fino a Forno, a sud del Monte Marmolada, dove era appostata questa brigata.
Fu un viaggio interessante per la varietà di mezzi di trasporto impiegati, e vai la pena di descriverlo brevemente, per dimostrare con quale facilità si poteva muoversi allora, rispetto alle difficoltà che incontrammo più tardi.
Per raggiungere la cima della valle sotto la postazione del Battaglione Battisti, prendemmo un carretto tirato da mulo, che ci portò fino al termine della strada, dove c'era un ponte, che era stato fatto saltare.
Qui salimmo in una macchina nera, lunga, sottile, guidata da un partigiano, che diceva di saper guidare auto da corsa. Due occhi piccoli e lucenti, che spuntavano fuori da una massa di barba e capelli castano rossicci, era tutto quel che si poteva vedere della sua faccia.
Nell'oscurità incipiente del crepuscolo, senza fari, senza freni, andavamo alla velocità per lo meno di 40 miglia all'ora, per strade secondarie strette e piene di curve.
Per un centinaio di iarde circa, dovemmo percorrere la via principale di Belluno, prima di poter girare in un'altra strada e, non appena i fari di un autocarro tedesco
apparirono proprio dietro di noi, con mio grande spavento vidi l'ago del tachimetro andare a fondo scala.
La nostra folle andatura fu interrotta, fortunatamente, dalla necessità di osservare le regole del coprifuoco, imposte a partire dalle otto di sera, dopo di che nessuna macchina civile poteva trovarsi per la strada.
Ci fermammo in un fienile, con due gomme a terra, per passare la notte. Un furgone chiuso della Todt ci aspettava per il mattino seguente. L'organizzazione Todt consisteva in gruppi di lavoro di civili, i quali ufficialmente lavoravano per i Tedeschi, ma col minimo zelo che bastasse a salvargli la pelle.
In
piacevole contrasto con l'esperienza da Grand Prix della sera precedente, risalimmo molto
tranquillamente il Canal del Mis, fermandoci a qualche miglio prima di Agordo, sulla strada
principale, dove c'era un presidio tedesco.
Qui gli altri avevano progettato di trovare il capo locale della Todt, un alleato dei partigiani, la cui presenza al fianco del guidatore avrebbe potuto assicurarci il passaggio attraverso il posto di blocco tedesco senza problemi; il commissario, Gatti ed io avremmo dovuto sedere dietro, presumibilmente fermi immobili con le dita incrociate.
Anche se questo piano ci avrebbe risparmiato una lunga camminata, non era proprio di mio gradimento. Infatti raramente mi sentii più sollevato in vita mia, di quando seppi che questo utilissimo ufficiale della Todt non si riusciva a trovare.
Era l'una di notte, ormai, per cui, nascosto il furgone nel bosco, ci muovemmo a piedi. Evitammo di passare per Agordo, con le sue strade piene di Tedeschi, che potevamo veder passeggiare intorno, e attraversammo un passo, la Forcella Cesurette (6000 piedi).
Da lì vidi di sfuggita un ghiacciaio minuscolo, in alto sulla Pala di S. Martino, che mi diede un'emozione sproporzionata alle sue piccole dimensioni. Otto ore più tardi entravamo zoppicando a Forno. Il comandante della Brigata Pisacane venne la mattina successiva a discutere sulle disposizioni da dare per le zone di lancio e io gli consegnai una considerevole somma di lire come garanzia delle nostre intenzioni. Alto, agile, bruno e di bell'aspetto, le pistole che sporgevano dalle tasche, egli faceva pensare ad un bravo napoletano. Carlo era difatti un napoletano; il che era davvero strano, poiché non c'è molta simpatia tra gli Italiani del nord e quelli del sud; ma per le sue numerose azioni di coraggio egli si era guadagnato il comando della brigata ed il rispetto di tutti. Uno di questi atti fu un'irruzione alla luce del giorno nelle carceri di Belluno, dove, per lo più con un bluff, aveva liberato un certo numero di partigiani. In seguito egli fu a capo del G.A.P. di Belluno e portò a termine un bel po' di lavoro tranquillo ma efficace, con una pistola col silenziatore che gli avevamo procurato. Era un esponente della scuola di «cappa e spada», vestiva in modo strano, cambiando foggia ogni giorno, e non dormiva mai due volte nello stesso posto.
La situazione a Pietena, quando ritornammo il 20, era rimasta immutata, tranne che per il tempo che stava diventando più freddo. Lo stagno in cui ci si lavava al mattino era coperto da uno strato sottile di ghiaccio e i1 28 cadde la neve per tutto il giorno. Pietena non si sarebbe potuta tenere durante l'inverno, ma Bruno, desiderando rimanervi attaccato il più a lungo possibile, fece in modo che la malga piena di correnti d'aria fosse foderata per bene col fieno.
La sua decisione era dovuta alla mancanza di armi e al loro ancor possibile arrivo. Ma ci si stava ponendo l'interrogativo su chi sarebbe arrivato prima, se le armi, l'inverno o i Tedeschi; e la bilancia pendeva pesantemente su questi ultimi. Era evidente l'intenzione del nemico di ripulire l'intera valle del Piave. Avevano già avuto a che fare con la zona del Cansiglio e il Monte Grappa e il 29 venne il nostro turno. Nel frattempo avemmo il nostro primo contatto con la Divisione Nannetti mediante una breve visita di Filippo (**), il suo comandante. Egli promise che sarebbe tornato entro pochi giorni per portarci nel nuovo Quartier Generale della Nannetti, ma sulla via del ritorno, il 29, si imbatté nei Tedeschi, che venivano ad attaccarci: fu ucciso sul colpo, andò persa tutta la raccolta di documenti “segreti” della divisione, comprese le posizioni e le segnalazioni di tutte le zone di lancio; ed egli scomparve dalla storia.
Verso le cinque della sera del 29 settembre fummo scossi dallo scoppio lontano di una mitragliatrice. Il posto di blocco della Compagnia Churchill riferì che una pattuglia tedesca aveva attaccato la postazione e il deposito nella valle, circa 2000 piedi più sotto. Il deposito era in fiamme. I1 rastrellamento atteso così a lungo stava evidentemente per cominciare. I comandanti dei Battaglioni Zancanaro e Battisti arrivarono per partecipare ad un consiglio di guerra, portando con loro notizie sui movimenti dei Tedeschi sotto le loro postazioni. Bruno, che era qualcosa come un mangiatore di fuoco, aveva un unico pensiero e piano in testa: combattere fino all'ultimo uomo e all'ultimo colpo. «I1 conduttore di cammello ha i suoi pensieri e il cammello, anch'esso ha i suoi», fu la riflessione che mi venne in mente nel sentire le minacciose parole riferite. Le avevo sentite ancora in precedenza, ma mai in connessione con la guerra partigiana, poiché in tal caso espressioni come «la perdita di terreno e di posizioni» non dovrebbero significare nulla.
La funzione dei partigiani era di rimanere intatti, come una forza di combattimento costituita semplicemente dal loro stesso esistere e fatta di puntate occasionali, a mo' di minaccia costante, contro cui il nemico fosse costretto a mantenere sempre occupate delle truppe, che avrebbe potuto invece impiegare altrove con maggior frutto. L'unica validità di Pietena era quella di essere un terreno di lancio. Ma esso non era né un buon terreno, né l'unico esistente allo scopo, e l'inverno ci avrebbe presto costretti ad abbandonarlo. Inoltre niente era stato ancora lanciato giù a Pietena e noi non potevamo dare nessuna garanzia che qualcosa vi sarebbe arrivato nel futuro. Esponemmo chiaramente queste osservazioni, ma senza risultato. Era in gioco l'onore della Brigata Gramsci; la disfatta dei partigiani sul Monte Grappa doveva essere vendicata: discorsi che vennero accolti con acclamazioni da un uditorio facilmente trascinabile e non istruito. Avrei potuto andare avanti e spiegare che anche i partigiani più abili non avrebbero potuto sperare di mantenere a lungo la più forte posizione, contro truppe fornite di mortai, mitragliatrici e munizioni illimitate, intercomunicanti tra loro e colla possibilità di ulteriori rinforzi in caso di bisogno; che le munizioni disponibili erano 300 salve per L.M.G. e 30 per fucile; che c'era cibo solo per pochi giorni, con nessuna speranza di ottenerne di più; e che il morale dei partigiani si sarebbe rinforzato con l'infliggere colpi al nemico e non col subirne.
Questi avvertimenti rimasero inascoltati. Forse essi persero la loro forza nella traduzione, o forse furono attribuiti a mancanza di coraggio. In realtà Bruno suggerì che la missione si ritirasse quella notte stessa, prima che fosse troppo tardi, ma questo progetto veramente sensato fu rifiutato. Avrebbero seguito il punto di vista militare più comune e cioè che la salvezza della missione, con il suo apparecchio radio e tutte le possibilità di rifornimenti futuri che esso permetteva, non poteva essere messa in pericolo inutilmente, o avrebbero pensato che stavamo fuggendo via? Non che questo interessasse molto a me, personalmente, perché io avevo passato buona parte della guerra a scappar via, per poi combattere di nuovo, insieme al resto dell'Armata Britannica; ma ciò avrebbe potuto nuocere al futuro, indebolendo la già piccola influenza che avevamo. Su assicurazione di Bruno, che egli desiderava non solo che la missione andasse via, ma che l'intera brigata uscisse dall'impasse del tutto intatta, decidemmo di aspettare gli eventi. Di fronte al fatto, però, che le quattro uscite conosciute stavano ormai per essere bloccate, il suo piano per ottenere questo non ci era del tutto chiaro. Comunque, pieni di speranza, supponemmo che ci fossero altre vie di uscita a noi sconosciute e con ciò andammo a letto. Il mattino seguente gli sviluppi della situazione furono lenti. Le uniche notizie di combattimento provenivano dal Battaglione Zancanaro ad ovest, ed entro mezzogiorno fu chiaro che questo era il punto in cui l'attacco incalzava veramente e che negli altri accessi il nemico creava semplicemente dei punti di arresto, per impedire che la situazione gli sfuggisse di mano.
La maggior parte del Battaglione Battisti fu portata su a Pietena, per rinforzare il bordo settentrionale del catino ed il crinale che lo divide in due, sul quale erano state preparate in precedenza delle postazioni con mitragliatrice. Alcuni visitatori ufficiali provenienti da sotto, che erano stati tagliati fuori dalla rapidità con cui le uscite erano state bloccate, tentarono la fuga attraverso l'arduo sentiero che scende giù per la parete nord. Ritornarono indietro più tardi per avvertirci che anche quello era bloccato da pattuglie insediate nella valle più sotto. C'era almeno una cinquantina di partigiani che giravano intorno alla malga dell' H.Q.: ufficiali di stato maggiore, impiegati, cuochi, messaggeri, intendenti, e gli altri oziosi che generalmente si raccolgono attorno ad un H. Q., quelli che l'Esercito chiama poco gentilmente i «disoccupati». C'erano anche combattenti del Battaglione Battisti, che erano scesi per cercar di capire cosa stava succedendo. Non erano i soli a cercare delucidazioni. Le notizie infatti erano scarse, e, in una disposizione d'animo tutt'altro che felice, noi non potevamo far altro che aspettare, nella condizione tipicamente deprimente di coloro che sono stati lasciati fuori dalla battaglia.
Bruno irradiava ancora fiducia, ma nel primo pomeriggio egli salì sul crinale, da dove si sentivano già provenire degli spari. E subito mandò l'ordine di portare via tutto e che tutti andassero sulla cima del Duodieci, una punta rocciosa e frastagliata, posta sull'orlo del catino, proprio sopra l'estremità settentrionale della catena spartiacque. Gambe di bue, sacchi di pane e fagioli, pentole, macchine da scrivere, furono caricati sulle spalle degli uomini e portate via in una maniera, che non si poteva far a meno di pensare che fosse sfiduciata, a dir poco.
I1 prepararsi per un'ultima resistenza sul Duodieci a questo stadio ancora iniziale, era sicuramente frutto della disperazione, e ciò significava che la battaglia non stava andando bene. Lasciando Ross e Pallino a Pietena con l'ordine di tener pronta per il trasferimento la nostra poca roba, io e Gatti andammo su a trovare Bruno. Per salire circa 500 piedi fino al crinale impiegammo intorno ai 20 minuti. Dalla nostra parte, la parte sottovento del crinale, era stata scaricata la maggior parte della roba portata via da Pietena e solo un gruppo dei partigiani più obbedienti si sforzava ancora di salire i pendii rocciosi del Duodieci con i propri carichi.
La cresta del crinale era sotto tiro del mortaio. Aspettammo il momento adatto per correre su fino alla cima e trovammo Bruno entro una buca coperta per mitragliatrici, sul pendio anteriore, molto indaffarato con una vecchia mitragliatrice francese che avrebbe potuto sparare al massimo un paio di raffiche prima di bloccarsi.
Attraverso la fenditura vidi che la malga Zancanaro era già nelle mani dei Tedeschi. Là dove la mulattiera attraversava l'orlo occidentale del catino a 2500 iarde di distanza, si poteva ora vedere il mortaio impegnato contro la nostra posizione. Altri Tedeschi stavano avanzando con aria indifferente attraverso il bacino, verso di noi, mentre un altro gruppo di un centinaio e più aveva appena iniziato a spostarsi lungo la cresta dell'orlo verso il Duodieci. Tutti i partigiani si erano ritirati sul crinale. Bruno, con la luce della battaglia negli occhi, prestò poca attenzione alla mia domanda su che cosa si proponesse di fare. I1 suggerimento che gli diedi, che in quel momento non era il caso di trastullarsi con una mitragliatrice e che in ogni caso far fuoco, con quell'arma vecchia e ostinata, contro uomini a 2000 iarde di distanza, era uno spreco di energia, cadde inascoltato. Durante i momenti ch'egli sottraeva malvolentieri alla lotta con quel pezzo miserabile d'arma, discutevamo aspramente, ma senza alcuna utilità, mentre le bombe del mortaio scoppiavano in modo più o meno innocuo intorno alla posizione. Tre partigiani erano stati feriti fino a quel momento. I Tedeschi suppongo invece che fossero tutti illesi. I partigiani d'intorno, eccetto Bruno, apparivano per la maggior parte decisamente e, io penso, a ragione, spaventati. Alla fine Bruno acconsentì a ritirarsi all'imbrunire e promise di inviare ordini in questo senso. Se questa fosse stata la sua intenzione reale, per tutto il tempo, oppure no, non lo saprei dire. Forse la rapidità con cui i Tedeschi avevano raggiunto la malga Zancanaro lo aveva sorpreso, ma, dato che avevamo aspettato così a lungo, era saggio aspettare fino all'imbrunire prima di ritirarsi. Lasciammo Bruno con la sua mitragliatrice e tornammo a Pietena per informare gli altri del nuovo piano. Erano circa le 7 pomeridiane, proprio verso il tramonto. Se «le nostre sopracciglia, come il titolo di un libro, predicessero il carattere tragico del volume» o se fossero le poche parole scambiate assieme, non saprei dire. Comunque l'effetto del nostro arrivo fu immediatamente dannoso. Un fragore di grida risuonò tra la compagnia dell' H. Q. e tra quei partigiani del Battaglione Battisti, che erano scesi giù dalle loro postazioni fino all'orlo del catino, 41 vagando senza meta; e un «si salvi chi può» sembrava imminente. Contemporaneamente si videro degli uomini riversarsi via, lungo l'orlo settentrionale in direzione del Duodieci. Questo fu decisivo.
Era venuto il momento di provvedere a noi stessi. Ci prendemmo una coperta per uno, caricammo la batteria a 6 volt su di un mulo, e Ross si mise in spalla la valigia contenente la radio.
Mi spostai per vedere se la Compagnia Churchill aveva ricevuto l'ordine della ritirata - poiché era probabile che sarebbero stati dimenticati nella confusione - mentre la folla dei partigiani cercava di districarsi fuori dirigendosi verso il sentiero Battisti. Non erano andati lontano che già delle figure si profilavano contro il cielo della sera sull'orlo meridionale. Con scatti fulminei si buttarono di corsa lungo il crinale e proiettili traccianti cominciarono a fischiare sopra le teste dei fuggitivi e a conficcarsi contro le rocce con un rumore sordo. Sebbene i Tedeschi fossero lontani almeno 1500 iarde, diedero prova di abilità nella luce cadente della sera e ci spaventarono i muli al punto che noi perdemmo la batteria. Quando fu buio, ci fermammo e Bruno ci raggiunse. Egli passò la direzione della ritirata, compito tutt'altro che invidiabile, al suo vicecomandante, dicendo che avrebbe aspettato per vedere cosa facevano i Tedeschi.
Il sentiero che portava alla malga Battisti seguiva l'orlo settentrionale proprio sotto la cresta, e verso le undici di sera, quando eravamo circa ad un miglio dalla malga, fu mandata avanti una pattuglia per valutare la possibilità di passare il posto di blocco inosservati, oppure di attaccarlo.
C'era molta neve d'intorno, e per un'ora la folla fuggitiva, dato che non eravamo molto di più di questo, rimase seduta sui sassi ad aspettare il verdetto con aria scoraggiata. Quando questo arrivò, era il previsto «nessuna delle due». Scoppiarono discussioni ancor maggiori di prima, ma questa volta sotto forma di bisbigli impauriti. Il piano appoggiato dalla maggioranza era di tentar di attraversare una valle a sud, nonostante si sapesse che era circondata da picchetti nemici. Caricati com'eravamo di un apparecchio radio che non potevamo permetterci di perdere, non sopportavo l'idea di cadere in tale trappola in quella valle, per cui suggerii agli altri un piano alternativo, cioè di restare bassi nel fianco nord delle Vette, finché il nemico non si fosse stancato di cercare i partigiani. Avremmo potuto anche trovare una via per scendere, ma, alla peggio, i Tedeschi non sarebbero stati lassù per più di un paio di giorni. Questo piano fu accettato. La Compagnia Churchill, in blocco, ci chiese di venire con noi e il cuoco italiano di Pietena, che era un nostro amico, si offrì di portare l'apparecchio radio. Si formò quindi un gruppo di sedici (e altri si sarebbero uniti se gli fosse stato permesso) al posto dei quattro o cinque auspicabili. Abbandonammo il sentiero, ci liberammo di altri partigiani che volevano venir con noi, e ci avviammo direttamente verso la cresta, incuranti di lasciare le nostre tracce su una chiazza di neve vicino al sentiero.
Appena raggiungemmo la cresta, vedemmo sotto di noi i fuochi dei picchetti nemici proprio nella valle che i partigiani speravano di attraversare.
Cominciammo la discesa della prima parte, che rassomigliava ad una gola nella zona più fonda, e le prime poche centinaia di piedi consistevano in un ghiaione ripido e ghiacciato con varie chiazze di neve. Presto fummo costretti ad arrestarci, perché la gola cadeva a picco improvvisamente, e allora scrostammo e ripulimmo un certo spiazzo e andammo a letto, per così dire, cioè ci sdraiammo. Avevamo una sola coperta a testa e niente cibo; in più eravamo ad un'altitudine di 7000 piedi ed era settembre avanzato. Io accarezzavo una debole speranza di riuscire ad aprire un passaggio per la discesa, ma le ricerche del giorno dopo mi dimostrarono che questo era già difficile per un piccolo e forte gruppo di scalatori, e del tutto impossibile per un gruppo come il nostro. Eravamo una squadra molto impreparata per scalare, sia pure su una montagna come Le Vette. Andando in avanscoperta sulla cima del burrone, all'alba, vidi gruppi di Tedeschi sul sentiero appena sotto, evidentemente impegnati nella ricerca dei Brer Rabbits, (***) senza dubbio numerosi, che, come noi, «stavano distesi e del tutto silenziosi». Erano distanti 3-400 iarde e, secondo la mia immaginazione, eccitati da una notte di digiuno, sembravano discutere sulle impronte che noi avevamo lasciato sulla neve, appena fuori del sentiero. Ridiscesi in punta di piedi e molto attentamente giù per la gola ed avvertii gli altri. Il peggio fu senz'altro la prima ora in quel giorno di apprensione continua.
Dopo divenne chiaro che la pattuglia che avevamo visto non veniva ad ispezionare la facciata nord, ma nonostante ciò cominciammo a respirare più liberamente solo quando cadde il crepuscolo.
Si alzò il vento quella notte. All'alba una bufera di neve soffiava da nord e da una parte noi non avevamo nessuna protezione. Continuò a soffiare tutto il giorno, ma, per quanto pesante fosse la nostra situazione, bastò il rumore lontano di un'arma automatica che arrivò alle nostre orecchie nonostante la tormenta, a farci resistere fino in fondo per un'altra notte ancora. Entro la fine del terzo giorno dovevamo muoverci, volenti o no. Nessuno di noi aveva mangiato per settantadue ore, alcuni avevano le dita gelate. e tutti eravamo irrigiditi dal freddo. L'inizio non fu di buon auspicio. Ero appena salito in perlustrazione sulla cima della gola, all'imbrunire, quando fui richiamato da grida selvagge, che provenivano dal basso. Dal momento che per tre giorni nessuno aveva osato alzare la voce al di sopra del semplice sussurro, doveva essere accaduto qualcosa di importante, forse avevano trovato del cibo. Infatti era successo che uno degli ex prigionieri di guerra era scivolato giù. Lo trovai con lo sguardo fisso ed una ferita importante alla testa, disteso su una prominenza, 60 piedi sotto il nostro covo, proprio sull'orlo di una frana di un'altezza simile. Anche le sue mani erano lacerate, ma, assicurandolo all'estremità della mia giacca, alla fine lo tirai su fin sulla cima della gola, dove gli altri stavano ora aspettando. Avevamo perso molto tempo, e, tra le dita gelate e gli arti irrigiditi al punto che per molti camminare era diventato un problema, il mio piano di cercare una via di uscita sicura, lungo la cresta dell'orlo del catino, dovette essere abbandonato e seguimmo il sentiero. Ad ogni passo la fiducia aumentava. Non incontrammo nessuno ed entro lo spuntar del giorno eravamo già distesi in un bosco, con lo sguardo fisso ad una casa colonica sottostante. Uno degli Inglesi che conosceva il posto scese, fu dato il segnale di via libera e di lì a poco stavamo già godendoci il primo pasto dal giorno dell'attacco. I Tedeschi erano partiti il giorno prima, dopo aver bruciato tutte le malgas ed alcune case di contadini nella valle, sospettati di simpatia verso i partigiani.
(*) - Kuznietzov era un ex-prigioniero russo originario di Podolsk nel circondario di Mosca fuggito da un lager nazista che verrà fucilato a Cesiomaggiore il 22 febbraio 1945 dai nazifascisti. Un cippo in sua memoria è tutt’ora presente nel luogo della morte.
(**) – v. pag. 30 - Tilman commette un errore: Filippo non fu ucciso, né preso dai Tedeschi. Moglie e figli saranno invece catturati al posto suo. Si tratta di Albertelli Luigi, ora generale dell'Artiglieria Alpina.
(***) - Letter. «Compagni conigli». N.B. – Ho scelto di lasciare errori sia sui nomi (per es. dei partigiani sovietici) che di alcuni particolari per non toccare il testo originale del maggiore Harold William TILMAN della “Missione SIMIA”.
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Sentieri e paesaggi che dovevano essere divenuti familiari al Maggiore Tilman. |
"Mentre salivamo lentamente con passo pesante gli ultimi ripidi zig-zag della mulattiera..." |
Ogni H. Q. giù fino a quello di un battaglione aveva il suo commissario politico, che era responsabile in particolare delle relazioni tra partigiani e popolazione civile, del mantenimento di un buon morale tra i partigiani e della loro istruzione politica. Egli lavorava in strettissimo contatto con il comandante e tutti gli ordini venivano invariabilmente firmati da entrambi. Nella Brigata Gramsci l'ora politica era strettamente osservata. Questa era un intervallo di tempo stabilito giornalmente, in cui il comandante o il commissario rivolgevano agli uomini discorsi su problemi di disciplina, organizzazione, economia interna o politica, e in cui ogni uomo poteva alzarsi e porre qualsiasi domanda, non escluso sul comportamento dei propri capi. Successivamente la cosa venne sospesa sia a causa della riduzione di uomini, sia a causa dell'allentarsi dell'interesse politico di fronte alla situazione sempre più critica dell'inverno. Alcuni Russi, prigionieri di guerra fuggiti, che erano sulle Vette con la brigata (uno era un comandante di compagnia), si preoccupavano in modo particolare che non ci fossero assenze durante l'ora politica. Sembravano soldati in piena efficienza, questi Russi, che prendevano la vita seriamente. Non c'era nulla di ridicolo o di scherzoso in loro, tranne i loro nomi Borlikoff, Orloff, Shuvoff, ecc.
(trattasi di Bortnikov, Orloff e Kuznietzov (*) - nda).
La disciplina era abbastanza buona, ma niente a che vedere con quella rigorosamente seguita nelle analoghe formazioni in Albania, dove piccoli furti, ubriachezza e immoralità erano tutti puniti con la morte. La disciplina in un corpo di uomini liberi, formatosi spontaneamente, rappresenta un problema delicato e difficile. Se gli uomini hanno inculcato in loro un alto senso di dedizione ad una cosa sacra, allora si possono stabilire regole estremamente severe, senza troppa paura che possano essere infrante e senza dover usare pene corrispondentemente severe; ma nel caso di un gruppo più eterogeneo e con principi meno elevati, gli occhi di coloro che hanno autorità devono spesso fingere di non vedere, eccezion fatta per serie infrazioni militari. Molto, in questo caso, dipende dalla forza e dalla personalità del comandante. C'era certamente più rilassatezza in Italia. Perfino il controllo dei rifornimenti ricevuti sull'area di lancio, una questione elementare e fondamentale, era spesso insoddisfacente. Ho saputo solo di due casi di partigiani fucilati, l'uno per ubriachezza, quando era di guardia, e l'altro perché aveva ripetutamente strappato del cibo ai civili con la forza, per il suo interesse personale. Per disobbedienza o negligenza nel dovere, un uomo poteva essere legato ad un albero per alcune ore, e, in casi più gravi, poteva essere bandito. Bruno, il comandante della brigata, era uomo di forte personalità, rispettato ed amato dai suoi uomini. Era un ex ufficiale di artiglieria ma, essendo stato impiegato solo in unità contraeree, non aveva alcuna esperienza di tattiche di fanteria e di combattimento. La sua brigata era ben organizzata e disciplinata e le armi, per quel che erano, tenute con molta cura.
Ma, a dispetto delle nostre continue richieste, espresse in un linguaggio che diventava sempre più rude, man mano che il tempo passava, niente ci arrivò all'infuori dei nostri bagagli e viveri, che alla fine furono sganciati sul Monte Grappa, dove furono rubati o andarono persi.
Pietena non era impossibile da trovare; lo si capì quando un aereo americano giunse proprio sopra di noi, per paracadutare due agenti italiani. Il terreno era assolutamente inadatto all'atterraggio di uomini, ma avendo ricevuto l'ordine di accoglierli, accendemmo i fuochi di segnalazione. Verso mezzanotte un Liberator volò alto sopra di noi, fece il giro una volta, e scomparve. Non vedemmo cader giù assolutamente nulla. Ma, all'alba, comparve uno sconosciuto, piuttosto stravolto nell'aspetto, che vestiva una tuta Sidcot, e domandò se avevamo visto il suo compagno. Furono subito inviati dei gruppi di ricerca. E trovarono lo sfortunato uomo appeso ad un dirupo a testa in giù. Non rimase seriamente infortunato, ma non ce ne attribuimmo il merito.
Nonostante che i partigiani fossero sorpresi e disgustati per la nostra incapacità di aiutarli, restavamo egualmente buoni amici. Penso che attribuissero il nostro fallimento ad incompetenza più che a cattiva volontà, ed in questo naturalmente avevano proprio ragione.
I più ardenti comunisti tra loro amavano pensare che noi ci tirassimo indietro per una presa di posizione predeterminata a causa delle loro idee politiche; e se non fosse stato per un carico di fucili Bren, caduto ai loro piedi, o meglio sulle loro dure teste, la loro teoria sarebbe stata difficile a morire; non importava quanto aspramente noi protestassimo che, pur che restassero entusiasti di combattere, avrebbero potuto essere anche anarchici, per quel che interessava a noi e ai nostri comandanti. Nonostante i nostri difetti, però, ci accettarono come uno di loro. Ci rifornirono di tutto quanto serve per dormire, poichè non avevamo ancora null'altro che gli abiti che vestivamo, il necessario da toletta, una scodella e un cucchiaio;che vestivamo, il necessario da toletta, una scodella e un cucchiaio; fecero sì che ricevessimo la nostra razione di sigarette e tabacco, e incaricarono perfino un fascista «addomesticato», che non avevano ancora eliminato, di portarci i pasti dalla cucina, dove si cucinava il cibo per tutti in un enorme calderone di rame.
Casera Pietena come appare nella carto- grafia ufficiale dell'I.G.M. di Firenze. Del- la malga restano solo i ruderi (nella parte alta della cartina). |
Oltre che cifrare e decifrare messaggi, visitare i battaglioni, e studiare a fondo la geografia de Le Vette, non c'era molto altro da fare per noi.
Il 17 settembre, approfittando della presenza da noi del commissario della Brigata Pisacane, che stava per tornare indietro, io e Gatti facemmo una gita rapida fino a Forno, a sud del Monte Marmolada, dove era appostata questa brigata.
Fu un viaggio interessante per la varietà di mezzi di trasporto impiegati, e vai la pena di descriverlo brevemente, per dimostrare con quale facilità si poteva muoversi allora, rispetto alle difficoltà che incontrammo più tardi.
Per raggiungere la cima della valle sotto la postazione del Battaglione Battisti, prendemmo un carretto tirato da mulo, che ci portò fino al termine della strada, dove c'era un ponte, che era stato fatto saltare.
Qui salimmo in una macchina nera, lunga, sottile, guidata da un partigiano, che diceva di saper guidare auto da corsa. Due occhi piccoli e lucenti, che spuntavano fuori da una massa di barba e capelli castano rossicci, era tutto quel che si poteva vedere della sua faccia.
Nell'oscurità incipiente del crepuscolo, senza fari, senza freni, andavamo alla velocità per lo meno di 40 miglia all'ora, per strade secondarie strette e piene di curve.
Per un centinaio di iarde circa, dovemmo percorrere la via principale di Belluno, prima di poter girare in un'altra strada e, non appena i fari di un autocarro tedesco
apparirono proprio dietro di noi, con mio grande spavento vidi l'ago del tachimetro andare a fondo scala.
La nostra folle andatura fu interrotta, fortunatamente, dalla necessità di osservare le regole del coprifuoco, imposte a partire dalle otto di sera, dopo di che nessuna macchina civile poteva trovarsi per la strada.
Ci fermammo in un fienile, con due gomme a terra, per passare la notte. Un furgone chiuso della Todt ci aspettava per il mattino seguente. L'organizzazione Todt consisteva in gruppi di lavoro di civili, i quali ufficialmente lavoravano per i Tedeschi, ma col minimo zelo che bastasse a salvargli la pelle.
"Ci nutrivamo molto bene..." |
Qui gli altri avevano progettato di trovare il capo locale della Todt, un alleato dei partigiani, la cui presenza al fianco del guidatore avrebbe potuto assicurarci il passaggio attraverso il posto di blocco tedesco senza problemi; il commissario, Gatti ed io avremmo dovuto sedere dietro, presumibilmente fermi immobili con le dita incrociate.
Anche se questo piano ci avrebbe risparmiato una lunga camminata, non era proprio di mio gradimento. Infatti raramente mi sentii più sollevato in vita mia, di quando seppi che questo utilissimo ufficiale della Todt non si riusciva a trovare.
Era l'una di notte, ormai, per cui, nascosto il furgone nel bosco, ci muovemmo a piedi. Evitammo di passare per Agordo, con le sue strade piene di Tedeschi, che potevamo veder passeggiare intorno, e attraversammo un passo, la Forcella Cesurette (6000 piedi).
Da lì vidi di sfuggita un ghiacciaio minuscolo, in alto sulla Pala di S. Martino, che mi diede un'emozione sproporzionata alle sue piccole dimensioni. Otto ore più tardi entravamo zoppicando a Forno. Il comandante della Brigata Pisacane venne la mattina successiva a discutere sulle disposizioni da dare per le zone di lancio e io gli consegnai una considerevole somma di lire come garanzia delle nostre intenzioni. Alto, agile, bruno e di bell'aspetto, le pistole che sporgevano dalle tasche, egli faceva pensare ad un bravo napoletano. Carlo era difatti un napoletano; il che era davvero strano, poiché non c'è molta simpatia tra gli Italiani del nord e quelli del sud; ma per le sue numerose azioni di coraggio egli si era guadagnato il comando della brigata ed il rispetto di tutti. Uno di questi atti fu un'irruzione alla luce del giorno nelle carceri di Belluno, dove, per lo più con un bluff, aveva liberato un certo numero di partigiani. In seguito egli fu a capo del G.A.P. di Belluno e portò a termine un bel po' di lavoro tranquillo ma efficace, con una pistola col silenziatore che gli avevamo procurato. Era un esponente della scuola di «cappa e spada», vestiva in modo strano, cambiando foggia ogni giorno, e non dormiva mai due volte nello stesso posto.
Inverno sul Monte Pavione. |
La situazione a Pietena, quando ritornammo il 20, era rimasta immutata, tranne che per il tempo che stava diventando più freddo. Lo stagno in cui ci si lavava al mattino era coperto da uno strato sottile di ghiaccio e i1 28 cadde la neve per tutto il giorno. Pietena non si sarebbe potuta tenere durante l'inverno, ma Bruno, desiderando rimanervi attaccato il più a lungo possibile, fece in modo che la malga piena di correnti d'aria fosse foderata per bene col fieno.
La sua decisione era dovuta alla mancanza di armi e al loro ancor possibile arrivo. Ma ci si stava ponendo l'interrogativo su chi sarebbe arrivato prima, se le armi, l'inverno o i Tedeschi; e la bilancia pendeva pesantemente su questi ultimi. Era evidente l'intenzione del nemico di ripulire l'intera valle del Piave. Avevano già avuto a che fare con la zona del Cansiglio e il Monte Grappa e il 29 venne il nostro turno. Nel frattempo avemmo il nostro primo contatto con la Divisione Nannetti mediante una breve visita di Filippo (**), il suo comandante. Egli promise che sarebbe tornato entro pochi giorni per portarci nel nuovo Quartier Generale della Nannetti, ma sulla via del ritorno, il 29, si imbatté nei Tedeschi, che venivano ad attaccarci: fu ucciso sul colpo, andò persa tutta la raccolta di documenti “segreti” della divisione, comprese le posizioni e le segnalazioni di tutte le zone di lancio; ed egli scomparve dalla storia.
Verso le cinque della sera del 29 settembre fummo scossi dallo scoppio lontano di una mitragliatrice. Il posto di blocco della Compagnia Churchill riferì che una pattuglia tedesca aveva attaccato la postazione e il deposito nella valle, circa 2000 piedi più sotto. Il deposito era in fiamme. I1 rastrellamento atteso così a lungo stava evidentemente per cominciare. I comandanti dei Battaglioni Zancanaro e Battisti arrivarono per partecipare ad un consiglio di guerra, portando con loro notizie sui movimenti dei Tedeschi sotto le loro postazioni. Bruno, che era qualcosa come un mangiatore di fuoco, aveva un unico pensiero e piano in testa: combattere fino all'ultimo uomo e all'ultimo colpo. «I1 conduttore di cammello ha i suoi pensieri e il cammello, anch'esso ha i suoi», fu la riflessione che mi venne in mente nel sentire le minacciose parole riferite. Le avevo sentite ancora in precedenza, ma mai in connessione con la guerra partigiana, poiché in tal caso espressioni come «la perdita di terreno e di posizioni» non dovrebbero significare nulla.
La funzione dei partigiani era di rimanere intatti, come una forza di combattimento costituita semplicemente dal loro stesso esistere e fatta di puntate occasionali, a mo' di minaccia costante, contro cui il nemico fosse costretto a mantenere sempre occupate delle truppe, che avrebbe potuto invece impiegare altrove con maggior frutto. L'unica validità di Pietena era quella di essere un terreno di lancio. Ma esso non era né un buon terreno, né l'unico esistente allo scopo, e l'inverno ci avrebbe presto costretti ad abbandonarlo. Inoltre niente era stato ancora lanciato giù a Pietena e noi non potevamo dare nessuna garanzia che qualcosa vi sarebbe arrivato nel futuro. Esponemmo chiaramente queste osservazioni, ma senza risultato. Era in gioco l'onore della Brigata Gramsci; la disfatta dei partigiani sul Monte Grappa doveva essere vendicata: discorsi che vennero accolti con acclamazioni da un uditorio facilmente trascinabile e non istruito. Avrei potuto andare avanti e spiegare che anche i partigiani più abili non avrebbero potuto sperare di mantenere a lungo la più forte posizione, contro truppe fornite di mortai, mitragliatrici e munizioni illimitate, intercomunicanti tra loro e colla possibilità di ulteriori rinforzi in caso di bisogno; che le munizioni disponibili erano 300 salve per L.M.G. e 30 per fucile; che c'era cibo solo per pochi giorni, con nessuna speranza di ottenerne di più; e che il morale dei partigiani si sarebbe rinforzato con l'infliggere colpi al nemico e non col subirne.
Questi avvertimenti rimasero inascoltati. Forse essi persero la loro forza nella traduzione, o forse furono attribuiti a mancanza di coraggio. In realtà Bruno suggerì che la missione si ritirasse quella notte stessa, prima che fosse troppo tardi, ma questo progetto veramente sensato fu rifiutato. Avrebbero seguito il punto di vista militare più comune e cioè che la salvezza della missione, con il suo apparecchio radio e tutte le possibilità di rifornimenti futuri che esso permetteva, non poteva essere messa in pericolo inutilmente, o avrebbero pensato che stavamo fuggendo via? Non che questo interessasse molto a me, personalmente, perché io avevo passato buona parte della guerra a scappar via, per poi combattere di nuovo, insieme al resto dell'Armata Britannica; ma ciò avrebbe potuto nuocere al futuro, indebolendo la già piccola influenza che avevamo. Su assicurazione di Bruno, che egli desiderava non solo che la missione andasse via, ma che l'intera brigata uscisse dall'impasse del tutto intatta, decidemmo di aspettare gli eventi. Di fronte al fatto, però, che le quattro uscite conosciute stavano ormai per essere bloccate, il suo piano per ottenere questo non ci era del tutto chiaro. Comunque, pieni di speranza, supponemmo che ci fossero altre vie di uscita a noi sconosciute e con ciò andammo a letto. Il mattino seguente gli sviluppi della situazione furono lenti. Le uniche notizie di combattimento provenivano dal Battaglione Zancanaro ad ovest, ed entro mezzogiorno fu chiaro che questo era il punto in cui l'attacco incalzava veramente e che negli altri accessi il nemico creava semplicemente dei punti di arresto, per impedire che la situazione gli sfuggisse di mano.
La maggior parte del Battaglione Battisti fu portata su a Pietena, per rinforzare il bordo settentrionale del catino ed il crinale che lo divide in due, sul quale erano state preparate in precedenza delle postazioni con mitragliatrice. Alcuni visitatori ufficiali provenienti da sotto, che erano stati tagliati fuori dalla rapidità con cui le uscite erano state bloccate, tentarono la fuga attraverso l'arduo sentiero che scende giù per la parete nord. Ritornarono indietro più tardi per avvertirci che anche quello era bloccato da pattuglie insediate nella valle più sotto. C'era almeno una cinquantina di partigiani che giravano intorno alla malga dell' H.Q.: ufficiali di stato maggiore, impiegati, cuochi, messaggeri, intendenti, e gli altri oziosi che generalmente si raccolgono attorno ad un H. Q., quelli che l'Esercito chiama poco gentilmente i «disoccupati». C'erano anche combattenti del Battaglione Battisti, che erano scesi per cercar di capire cosa stava succedendo. Non erano i soli a cercare delucidazioni. Le notizie infatti erano scarse, e, in una disposizione d'animo tutt'altro che felice, noi non potevamo far altro che aspettare, nella condizione tipicamente deprimente di coloro che sono stati lasciati fuori dalla battaglia.
Bruno irradiava ancora fiducia, ma nel primo pomeriggio egli salì sul crinale, da dove si sentivano già provenire degli spari. E subito mandò l'ordine di portare via tutto e che tutti andassero sulla cima del Duodieci, una punta rocciosa e frastagliata, posta sull'orlo del catino, proprio sopra l'estremità settentrionale della catena spartiacque. Gambe di bue, sacchi di pane e fagioli, pentole, macchine da scrivere, furono caricati sulle spalle degli uomini e portate via in una maniera, che non si poteva far a meno di pensare che fosse sfiduciata, a dir poco.
I1 prepararsi per un'ultima resistenza sul Duodieci a questo stadio ancora iniziale, era sicuramente frutto della disperazione, e ciò significava che la battaglia non stava andando bene. Lasciando Ross e Pallino a Pietena con l'ordine di tener pronta per il trasferimento la nostra poca roba, io e Gatti andammo su a trovare Bruno. Per salire circa 500 piedi fino al crinale impiegammo intorno ai 20 minuti. Dalla nostra parte, la parte sottovento del crinale, era stata scaricata la maggior parte della roba portata via da Pietena e solo un gruppo dei partigiani più obbedienti si sforzava ancora di salire i pendii rocciosi del Duodieci con i propri carichi.
La cresta del crinale era sotto tiro del mortaio. Aspettammo il momento adatto per correre su fino alla cima e trovammo Bruno entro una buca coperta per mitragliatrici, sul pendio anteriore, molto indaffarato con una vecchia mitragliatrice francese che avrebbe potuto sparare al massimo un paio di raffiche prima di bloccarsi.
Attraverso la fenditura vidi che la malga Zancanaro era già nelle mani dei Tedeschi. Là dove la mulattiera attraversava l'orlo occidentale del catino a 2500 iarde di distanza, si poteva ora vedere il mortaio impegnato contro la nostra posizione. Altri Tedeschi stavano avanzando con aria indifferente attraverso il bacino, verso di noi, mentre un altro gruppo di un centinaio e più aveva appena iniziato a spostarsi lungo la cresta dell'orlo verso il Duodieci. Tutti i partigiani si erano ritirati sul crinale. Bruno, con la luce della battaglia negli occhi, prestò poca attenzione alla mia domanda su che cosa si proponesse di fare. I1 suggerimento che gli diedi, che in quel momento non era il caso di trastullarsi con una mitragliatrice e che in ogni caso far fuoco, con quell'arma vecchia e ostinata, contro uomini a 2000 iarde di distanza, era uno spreco di energia, cadde inascoltato. Durante i momenti ch'egli sottraeva malvolentieri alla lotta con quel pezzo miserabile d'arma, discutevamo aspramente, ma senza alcuna utilità, mentre le bombe del mortaio scoppiavano in modo più o meno innocuo intorno alla posizione. Tre partigiani erano stati feriti fino a quel momento. I Tedeschi suppongo invece che fossero tutti illesi. I partigiani d'intorno, eccetto Bruno, apparivano per la maggior parte decisamente e, io penso, a ragione, spaventati. Alla fine Bruno acconsentì a ritirarsi all'imbrunire e promise di inviare ordini in questo senso. Se questa fosse stata la sua intenzione reale, per tutto il tempo, oppure no, non lo saprei dire. Forse la rapidità con cui i Tedeschi avevano raggiunto la malga Zancanaro lo aveva sorpreso, ma, dato che avevamo aspettato così a lungo, era saggio aspettare fino all'imbrunire prima di ritirarsi. Lasciammo Bruno con la sua mitragliatrice e tornammo a Pietena per informare gli altri del nuovo piano. Erano circa le 7 pomeridiane, proprio verso il tramonto. Se «le nostre sopracciglia, come il titolo di un libro, predicessero il carattere tragico del volume» o se fossero le poche parole scambiate assieme, non saprei dire. Comunque l'effetto del nostro arrivo fu immediatamente dannoso. Un fragore di grida risuonò tra la compagnia dell' H. Q. e tra quei partigiani del Battaglione Battisti, che erano scesi giù dalle loro postazioni fino all'orlo del catino, 41 vagando senza meta; e un «si salvi chi può» sembrava imminente. Contemporaneamente si videro degli uomini riversarsi via, lungo l'orlo settentrionale in direzione del Duodieci. Questo fu decisivo.
Era venuto il momento di provvedere a noi stessi. Ci prendemmo una coperta per uno, caricammo la batteria a 6 volt su di un mulo, e Ross si mise in spalla la valigia contenente la radio.
Mi spostai per vedere se la Compagnia Churchill aveva ricevuto l'ordine della ritirata - poiché era probabile che sarebbero stati dimenticati nella confusione - mentre la folla dei partigiani cercava di districarsi fuori dirigendosi verso il sentiero Battisti. Non erano andati lontano che già delle figure si profilavano contro il cielo della sera sull'orlo meridionale. Con scatti fulminei si buttarono di corsa lungo il crinale e proiettili traccianti cominciarono a fischiare sopra le teste dei fuggitivi e a conficcarsi contro le rocce con un rumore sordo. Sebbene i Tedeschi fossero lontani almeno 1500 iarde, diedero prova di abilità nella luce cadente della sera e ci spaventarono i muli al punto che noi perdemmo la batteria. Quando fu buio, ci fermammo e Bruno ci raggiunse. Egli passò la direzione della ritirata, compito tutt'altro che invidiabile, al suo vicecomandante, dicendo che avrebbe aspettato per vedere cosa facevano i Tedeschi.
Il sentiero che portava alla malga Battisti seguiva l'orlo settentrionale proprio sotto la cresta, e verso le undici di sera, quando eravamo circa ad un miglio dalla malga, fu mandata avanti una pattuglia per valutare la possibilità di passare il posto di blocco inosservati, oppure di attaccarlo.
C'era molta neve d'intorno, e per un'ora la folla fuggitiva, dato che non eravamo molto di più di questo, rimase seduta sui sassi ad aspettare il verdetto con aria scoraggiata. Quando questo arrivò, era il previsto «nessuna delle due». Scoppiarono discussioni ancor maggiori di prima, ma questa volta sotto forma di bisbigli impauriti. Il piano appoggiato dalla maggioranza era di tentar di attraversare una valle a sud, nonostante si sapesse che era circondata da picchetti nemici. Caricati com'eravamo di un apparecchio radio che non potevamo permetterci di perdere, non sopportavo l'idea di cadere in tale trappola in quella valle, per cui suggerii agli altri un piano alternativo, cioè di restare bassi nel fianco nord delle Vette, finché il nemico non si fosse stancato di cercare i partigiani. Avremmo potuto anche trovare una via per scendere, ma, alla peggio, i Tedeschi non sarebbero stati lassù per più di un paio di giorni. Questo piano fu accettato. La Compagnia Churchill, in blocco, ci chiese di venire con noi e il cuoco italiano di Pietena, che era un nostro amico, si offrì di portare l'apparecchio radio. Si formò quindi un gruppo di sedici (e altri si sarebbero uniti se gli fosse stato permesso) al posto dei quattro o cinque auspicabili. Abbandonammo il sentiero, ci liberammo di altri partigiani che volevano venir con noi, e ci avviammo direttamente verso la cresta, incuranti di lasciare le nostre tracce su una chiazza di neve vicino al sentiero.
Appena raggiungemmo la cresta, vedemmo sotto di noi i fuochi dei picchetti nemici proprio nella valle che i partigiani speravano di attraversare.
Cominciammo la discesa della prima parte, che rassomigliava ad una gola nella zona più fonda, e le prime poche centinaia di piedi consistevano in un ghiaione ripido e ghiacciato con varie chiazze di neve. Presto fummo costretti ad arrestarci, perché la gola cadeva a picco improvvisamente, e allora scrostammo e ripulimmo un certo spiazzo e andammo a letto, per così dire, cioè ci sdraiammo. Avevamo una sola coperta a testa e niente cibo; in più eravamo ad un'altitudine di 7000 piedi ed era settembre avanzato. Io accarezzavo una debole speranza di riuscire ad aprire un passaggio per la discesa, ma le ricerche del giorno dopo mi dimostrarono che questo era già difficile per un piccolo e forte gruppo di scalatori, e del tutto impossibile per un gruppo come il nostro. Eravamo una squadra molto impreparata per scalare, sia pure su una montagna come Le Vette. Andando in avanscoperta sulla cima del burrone, all'alba, vidi gruppi di Tedeschi sul sentiero appena sotto, evidentemente impegnati nella ricerca dei Brer Rabbits, (***) senza dubbio numerosi, che, come noi, «stavano distesi e del tutto silenziosi». Erano distanti 3-400 iarde e, secondo la mia immaginazione, eccitati da una notte di digiuno, sembravano discutere sulle impronte che noi avevamo lasciato sulla neve, appena fuori del sentiero. Ridiscesi in punta di piedi e molto attentamente giù per la gola ed avvertii gli altri. Il peggio fu senz'altro la prima ora in quel giorno di apprensione continua.
Dopo divenne chiaro che la pattuglia che avevamo visto non veniva ad ispezionare la facciata nord, ma nonostante ciò cominciammo a respirare più liberamente solo quando cadde il crepuscolo.
Si alzò il vento quella notte. All'alba una bufera di neve soffiava da nord e da una parte noi non avevamo nessuna protezione. Continuò a soffiare tutto il giorno, ma, per quanto pesante fosse la nostra situazione, bastò il rumore lontano di un'arma automatica che arrivò alle nostre orecchie nonostante la tormenta, a farci resistere fino in fondo per un'altra notte ancora. Entro la fine del terzo giorno dovevamo muoverci, volenti o no. Nessuno di noi aveva mangiato per settantadue ore, alcuni avevano le dita gelate. e tutti eravamo irrigiditi dal freddo. L'inizio non fu di buon auspicio. Ero appena salito in perlustrazione sulla cima della gola, all'imbrunire, quando fui richiamato da grida selvagge, che provenivano dal basso. Dal momento che per tre giorni nessuno aveva osato alzare la voce al di sopra del semplice sussurro, doveva essere accaduto qualcosa di importante, forse avevano trovato del cibo. Infatti era successo che uno degli ex prigionieri di guerra era scivolato giù. Lo trovai con lo sguardo fisso ed una ferita importante alla testa, disteso su una prominenza, 60 piedi sotto il nostro covo, proprio sull'orlo di una frana di un'altezza simile. Anche le sue mani erano lacerate, ma, assicurandolo all'estremità della mia giacca, alla fine lo tirai su fin sulla cima della gola, dove gli altri stavano ora aspettando. Avevamo perso molto tempo, e, tra le dita gelate e gli arti irrigiditi al punto che per molti camminare era diventato un problema, il mio piano di cercare una via di uscita sicura, lungo la cresta dell'orlo del catino, dovette essere abbandonato e seguimmo il sentiero. Ad ogni passo la fiducia aumentava. Non incontrammo nessuno ed entro lo spuntar del giorno eravamo già distesi in un bosco, con lo sguardo fisso ad una casa colonica sottostante. Uno degli Inglesi che conosceva il posto scese, fu dato il segnale di via libera e di lì a poco stavamo già godendoci il primo pasto dal giorno dell'attacco. I Tedeschi erano partiti il giorno prima, dopo aver bruciato tutte le malgas ed alcune case di contadini nella valle, sospettati di simpatia verso i partigiani.
(*) - Kuznietzov era un ex-prigioniero russo originario di Podolsk nel circondario di Mosca fuggito da un lager nazista che verrà fucilato a Cesiomaggiore il 22 febbraio 1945 dai nazifascisti. Un cippo in sua memoria è tutt’ora presente nel luogo della morte.
(**) – v. pag. 30 - Tilman commette un errore: Filippo non fu ucciso, né preso dai Tedeschi. Moglie e figli saranno invece catturati al posto suo. Si tratta di Albertelli Luigi, ora generale dell'Artiglieria Alpina.
(***) - Letter. «Compagni conigli». N.B. – Ho scelto di lasciare errori sia sui nomi (per es. dei partigiani sovietici) che di alcuni particolari per non toccare il testo originale del maggiore Harold William TILMAN della “Missione SIMIA”.
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