A proposito di toponimi farlocchi e di vizi tàliani in terra sudtirolese (dove si vede come documentarsi nel cortile di casa non aiuta, ma spinge a prendere per buoni gli abbagli altrui).
Nel caso della Weisskugel il fantasioso Ettore Tolomei per una volta non s'era lasciato andare a traduzioni "ad minchiam". Si era attenuto ai significati letterali (Weiss=bianco, Kugel=palla). Il toponimo italiano è stato poi adottato dalla cartografia ufficiale I.G.M. e da lì è atterrato nelle attuali cartine, anche quelle in lingua tedesca. Ma una parte della pubblicistica in lingua italiana ha successivamente accreditato la bislacca teoria secondo la quale "palla" andrebbe in realtà intesa come pala ossia come pala d'altare, cosa che (legittimamente) avviene nel caso della Pala di San Martino, ma non certo qui. Nella foto si vede lo stato della via di salita nel 1994 osservata dallo Hintereisjoch/Giogo della Vedretta (hinter=bassa). |
Una guida alpinistica compilata in Trentino non è sempre affidabile quando si avventura nelle "terre incognite" sopra Salorno.
A fidarsene troppo si rischiano figuracce (è solo una bonaria tirata d'orecchie al vecchio Gigi, che per essersene troppo fidato così scriveva nel 2005):
"Il vecchio amico Fausto è riuscito a convincermi ad uscire dal Trentino, per visitare una montagna Sud Tirolese nelle Alpi Venoste di Levante (Ötztaler Alpen). Naturalmente ha scelto la più alta, infatti, vuole salire la Pala Bianca di 3.739 metri. Sulle prime ho cercato di convincerlo a scegliere qualcosa di più comodo e meno impegnativo,
ma Herr Professor (così ogni tanto chiamo, scherzosamente, l’amico riferendomi al suo lavoro d’insegnante) è stato irremovibile; e Pala Bianca sia. Come sempre, quando vado in una zona sconosciuta, cerco di documentarmi. La libreria di casa è povera d’informazioni particolareggiate, sulla zona teatro della nostra escursione, perciò devo utilizzare il mio asso nella manica. Così, vado in centro città alla libreria Disertori che, grazie alla passione del simpatico e burbero Ulisse Marzatico, storico librario di Trento, è la più fornita nell’editoria di montagna. Lì, curiosando tra volumi e guide, tra carte e mappe riesco a trovare quanto necessario.
ma Herr Professor (così ogni tanto chiamo, scherzosamente, l’amico riferendomi al suo lavoro d’insegnante) è stato irremovibile; e Pala Bianca sia. Come sempre, quando vado in una zona sconosciuta, cerco di documentarmi. La libreria di casa è povera d’informazioni particolareggiate, sulla zona teatro della nostra escursione, perciò devo utilizzare il mio asso nella manica. Così, vado in centro città alla libreria Disertori che, grazie alla passione del simpatico e burbero Ulisse Marzatico, storico librario di Trento, è la più fornita nell’editoria di montagna. Lì, curiosando tra volumi e guide, tra carte e mappe riesco a trovare quanto necessario.
Partiamo da Trento in un’afosa giornata di luglio giungendo a Kurzas (Maso Corto), nell’alta Schnalstal (Val Senales). Restiamo sbigottiti ed amareggiati dallo scempio subito da questa località. La piccola chiesetta, insieme con ciò che resta del minuscolo agglomerato di case originario, è sovrastata e sepolta dall’edilizia moderna. La stazione della funivia che porta alla Grawand (Croda di Cornacchia) è un mostro di cemento. La sua bruttezza è resa ancor più clamorosa dalla semplice bellezza del modesto fabbricato della chiesa.
Caricati gli zaini in spalla ci affrettiamo a lasciare questo posto, ormai irrimediabilmente deturpato, avviandoci verso la Schöne-Aussicht-Hütte (rifugio Bellavista). Salendo con calma non perdo occasione per cercare riscontro alle informazioni in mio possesso. Fausto, un po’ perplesso, mi chiede quali sono le mie conoscenze della zona. Io, sornione, non aspettavo altro ed inizio la recita: «Stiamo salendo con il sentiero n° 3 tra la Punta delle Frane e la Croda Grigia. In due ore e mezzo da Maso Corto si raggiunge il rifugio Bellavista, costruito nel 1896 dalla famiglia Gurschler di Maso Corto a poca distanza dall’attuale confine con l’Austria. Il rifugio è oggi proprietà del gestore Paul Grüner, albergatore di Karthaus (Certosa), piccolo centro della Val Senales. Domani dal rifugio dovremo dirigerci verso ovest, salire lungo la Teufelsegg (Cresta del Diavolo) fino a circa 3.325 metri, poi calare alla Steinschlagjoch (Bocchetta delle Frane, m 3.238). Si prosegue sul pianoro superiore dell’Hintereisferner, il ghiacciaio in territorio austriaco, poi si sale all’Hintereisjoch (Bocchetta della Vedretta, m 3.469), si supera un ripido pendio nevoso, giungendo alla cresta sud della Pala Bianca che si percorre fino alla vetta; in tutto 1.343 metri di dislivello e circa quattro ore di salita.»
Fausto, sorpreso, mi chiede: «Ma come sai tutte queste notizie?». Mi giro verso l’amico che mi sta seguendo e, con un sorriso, gli mostro il foglietto, fitto di appunti, che ho appena letto rispondendo serafico: «Mi sono documentato». Fausto si ferma, allarga le braccia, poi riprende il cammino con un unico commento nei miei confronti: «Maniaco!». Passato qualche minuto l’amico afferma che il nome della montagna è Palla Bianca e non Pala. Con tono professionale replico prontamente: «Il toponimo è usato soprattutto nella zona alpina veneto-trentina. Un tempo indicava i pendii erbosi alla base delle pareti dolomitiche, poi per estensione è passato ad identificare le montagne. Per alcuni linguisti il termine “pala” ha una derivazione pre indoeuropea e vuol dire “rupe ripida”; per altri deriva dal latino e significa pala o vanga da forno. In questo caso il significato originale è stato storpiato con il raddoppio della consonante. Se non ti basta posso citarti testi ed autori». Fausto mi lancia un’occhiataccia, m’intima di tacere e di muovermi. Obbedisco, abbandonando la voluta pedanteria, e penso a camminare.
Raggiunto il rifugio saliamo nella camera assegnataci. La stanza è minuscola, ma bellissima. Completamente foderata di legno, con i letti dipinti con motivi floreali, una piccola finestra con una graziosa tendina a quadretti bianchi e blu. Difficile non pensare di essere ospiti nella casetta di uno gnomo.
Il giorno dopo iniziamo la nostra escursione, muovendoci nell'aria frizzante di un mattino sereno e limpido. Sulla Cresta del Diavolo ci fermiamo ogni tanto per guardare intorno a noi. Lo spettacolo della natura qui è ben diverso da quello dolomitico: i ghiacciai, segnati da crepacci e seracchi, sono tutto intorno. Le montagne grandi, imponenti e severe, di colore scuro incutono timore, a volte repulsione. Ci si sente tanto piccoli.
Proseguiamo il cammino, trovando altri alpinisti impegnati nella salita, e raggiungiamo la vetta giusto in tempo per scattare alcune foto e poi battere precipitosamente in ritirata; il tempo è cambiato repentinamente. Si sta avvicinando un veloce fronte nuvoloso, compatto e nero. Quando arriviamo sotto la Bocchetta della Vedretta, gli alpinisti che abbiamo incontrato si dirigono a destra sparendo alla vista. Fausto mi chiede se sia il caso di seguirli; rispondo che non sapendo dove siano diretti, preferisco rifare il percorso conosciuto. L’amico prosegue la marcia, ma non perde l’occasione, e mi lancia la frecciata: «Ma non ti eri documentato?». Senza rispondere alla provocazione lo seguo.
Siamo sulla Cresta del Diavolo ed il cielo ormai incute timore, un vento forte ci costringe a sforzi continui per non perdere l’equilibrio, poi di colpo sento l’elettricità: i peli delle braccia si rizzano, così come i capelli. Devo lottare con la paura, farsi prendere dal panico è la cosa peggiore che può succedere in queste situazioni di pericolo. Anche Fausto sa cosa può capitarci, teso ed in silenzio si muove davanti a me. Cerchiamo di accelerare il passo per allontanarci dalla cresta il più rapidamente possibile, ma non è semplice. Occorre procedere con prudenza, soprattutto nei punti più sottili ed esposti, dove anche il vento fa di tutto per farci precipitare. Quando finalmente abbandoniamo la cresta tiro un respiro di sollievo, ma è solo questione di minuti. Con uno schianto secco, il fulmine mi fa sobbalzare: era vicino, troppo vicino. Cerco di deglutire ma mi accorgo che ho la bocca secca, incolpo la sete barando con me stesso, infatti, è solo paura. Ormai stiamo procedendo quasi di corsa, consapevoli del pericolo mortale in agguato. Un rumore leggero mi procura un brivido lungo la schiena. La piccozza! La piccozza che ho appesa allo zaino sta sfrigolando come una goccia d’acqua nell’olio bollente e, come se non bastasse, ha il puntale rivolto verso l’alto: in pratica è un ottimo parafulmine. In quel momento comincia a grandinare, ci mancava anche questa. Veniamo investiti da proiettili di ghiaccio grandi come fagioli e dobbiamo fermarci per coprirci la testa in tutta fretta. Ripartiamo di gran carriera incalzati da un vento freddo e fortissimo, martoriati dalla grandine che ci costringe a procedere curvi per riparare il viso. Siamo in una situazione assolutamente pericolosa: il pendio su cui ci troviamo è piatto ed uniforme, non c’è possibilità alcuna di riparo, i nostri corpi sono l’unica forma verticale. In sostanza siamo due perfetti bersagli, peggio, siamo gli unici due bersagli!
Decido di fermarmi, chiamare Fausto e dirgli di buttare lontano piccozza e ramponi per poi accucciarci a terra. È l’unico modo che abbiamo per ridurre al minimo il pericolo del fulmine. La mia voce è coperta dal rombo del tuono e dal vento, finalmente il mio compagno avverte il richiamo e si ferma. In quel mentre vedo, a poca distanza, un segnavia sbiadito su di un sasso. Mi avvicino scorgendone un altro più distante: non ci sono dubbi, sono segnavia. Quindi c’è un percorso che scende a valle senza passare dal rifugio. Chiamo Fausto e appena mi raggiunge gli dico: «Ci sono dei segnavia, da qualche parte ci porteranno, possiamo scendere da qui lasciando questo maledetto pendio». Fausto fa solo un rapido cenno d’assenso e si avvia quasi di corsa. Lo seguo senza indugio, entrambi sappiamo fin troppo bene cosa stiamo rischiando.
Velocemente come è arrivato il temporale diminuisce d’intensità, la grandinata cessa, il vento cala, il tuono si allontana, infine tutto finisce. Ci fermiamo a riposare un poco, ormai il pericolo è cessato. Ora subentra quasi un senso di spossatezza, tanto è l’intimo sollievo dello scampato pericolo. Scambiamo qualche frase, buttata lì con noncuranza come se nulla fosse successo; in realtà serve ad esprimere il nostro cambiamento d’umore. Intanto dalla bocca è passata l’arsura, sputo per terra poi mi sfogo: «Mi è tornata la saliva, porca miseria ho avuto una fifa bestia!». Fausto si gira verso di me con un leggero sorriso, non c’è bisogno di altre parole, ci guardiamo un attimo negli occhi dicendoci tutto e niente, rimettiamo gli zaini in spalla e ci avviamo verso valle."
(Luigi Faggiani, "Racconti minimi", Euredit, Trento, 2003)
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